Il Paesaggio come Bene comune

Mio figlio mi ha regalato un libricino di una ventina di pagine. Autore Salvatore Settis. Titolo “Il paesaggio come bene comune”. Tratto da una lezione tenuta a Napoli in occasione di una premiazione.
Ho una vera e propria ammirazione per Settis che conosco da pochi anni e che sempre mi stupisce per la chiarezza e corposità delle sue argomentazioni. Mi rendo conto che questo messaggio esula un po’ dalle solite informazioni del sito, ma mi pare utile offrirvene una sintesi che vi susciti quelle emozioni e reazioni che ho provato io.
È vero, non è farina del mio sacco, ma del resto la nostra cultura è un insieme di stimoli, di esperienze, di pensieri che altri ci hanno offerto e che, se siamo ricettivi, abbiamo fatti nostri per creare quel piedestallo su cui possiamo formare nostri stimoli, nostre esperienze, nostri pensieri.

“Il futuro non è più quello di una volta” Paul Valéry.
Un tempo i giovani avevano la speranza e il diritto di aspettare un futuro diverso da quello che vediamo spalancarsi sotto i nostri occhi. La radice della profonda mutazione affonda nel tramonto dell’idea del Bene comune e lo sfacelo del nostro paesaggio ne è la più efficace cartina di tornasole.
BENE COMUNE vuol dire coltivare una visione lungimirante, investire nel futuro, preoccuparsi della comunità di cittadini, prestare attenzione prioritaria ai giovani e alla loro formazione.
Sino a non molti decenni or sono la publica utilitas, il pubblico interesse, era ben vivo nella concezione di tutti noi. Diffusissimo nelle normative delle centinaia di Statuti medioevali, generava, prima delle costrizioni e delle pene severissime, un’etica condivisa, un sistema di valori civili che ogni generazione, per secoli, consegnò a quelle successive.
Pensiamo in particolare alla tutela del patrimonio artistico e del paesaggio. La supremazia del pubblico interesse sul profitto privato ricorre ossessivamente e raggiungerà il suo culmine con la nostra Costituzione repubblicana, la prima al mondo in cui la tutela del patrimonio storico e artistico e del paesaggio faccia parte dei principi fondamentali dello Stato (art.9).
Riconoscere la priorità del bene comune vuol dire subordinare ad esso ogni interesse del singolo, quando con il bene comune sia in contrasto. Il bene comune non comprime ma limita i diritti dei privati e delle imprese e la libertà d’impresa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla salute, alla dignità umana.
Ma vediamo le stigmate del tempo presente. Vediamo un mercatismo cieco e senz’anima sostituirsi, con la complicità dei troppi che tacciono, agli orizzonti di un’etica comune. Vediamo chi ci governa sventolare la bandiera sporca di una economia mondializzata e di una crescita materiale infinita di cui ognuno vede giorno dopo giorno il tracollo. Vediamo l’oscenità dei piani casa, dei condoni e delle sanatorie devastare l’Italia.
L’Italia è il paese europeo con il più alto consumo di territorio, una bomba ad orologeria che non vogliamo vedere ma che incombe ovunque, anche intorno a casa nostra.
Fra il 1990 e il 2005 la superficie agricola si è ridotta di quasi quattro milioni di ettari, un’area corrispondente al Lazio e all’Abruzzo. In 15 anni abbiamo convertito, cementificato, inquinato o degradato il 17,06 del nostro suolo agricolo. I Comuni italiani rilasciano permessi a costruire a tutto spiano, anche perché lo Stato ha lasciato loro come ultima risorsa gli oneri di urbanizzazione. In più ci sono 4.400.000 abitazioni abusive non censite. La sequenza di condoni che susseguono da Craxi a Berlusconi stimola l’abusivismo, praticato nella certezza che un condono prima o poi arriverà.
Stiamo trattando i nostro territorio come se fosse una risorsa senza fine. Stiamo divorando il corpo della madre Terra come se ne fossimo gli unici figli, come se dopo di noi ci fosse il vuoto, come se avessimo solo diritti e nessun dovere. Stiamo alimentando un’idea dello sviluppo infinito incentrato nell’edilizia impedendo investimenti più innovativi, più mirati al futuro. Stiamo coltivando un’idea di paesaggio come risorsa passiva, come miniera da sfruttare e non come bene comune.
Eppure in Italia ci sono almeno 800.000 edifici inutilizzati e almeno un milione di appartamenti invenduti costruiti in questi ultimi anni. E tutto ciò per “far lavorare le imprese”, indicando nell’edilizia e nelle opere inutili i principali motori dell’economia nazionale, favorendole in tutti i sensi.
Vorrei porre ora una domanda: ma come mai allora l’economia è ferma da decenni, anzi si declassa sempre più?
La devastazione del paesaggio vuol dire distruzione della memoria storica, vuol dire distruzione del futuro: la nostra intera storia fu costruita sopra un senso potente e diffuso del bene comune. Per divorare il territorio, per continuare il grande saccheggio è necessario anche distruggere la nostra memoria storica. Depotenziare la tutela è più facile e più efficace se i cittadini, smemorati, non se ne accorgono. E noi stupidamente collaboriamo quando non educhiamo i nostri figli al rispetto e alla conoscenza del mondo vicino, quando non trasmettiamo le nostre esperienze e non li sollecitiamo a farne loro, quando ripudiamo come un peso fastidioso i nostri ricordi giovanili, quando la scuola non fa cultura locale, non stimola esperienze a contatto con luoghi e persone vitali e stimolanti. Diceva Burke, dopo la Rivoluzione francese, “Gli uomini che non guardano ma indietro verso i propri antenati, non saranno mai capaci d guardare avanti, verso i posteri”.
A coloro che difendono il paesaggio si rivolge spesso l’accusa di essere dei laudatores temporis acti, cultori della bellezza per puro passatismo. Non è di questa nozione di paesaggio che abbiamo bisogno. Il bisogno di paesaggio come bene comune non ha una causa meramente estetica, ma anche
- filosofica perché ha a che fare con la Natura;
- storica, perché ha a che fare con la Memoria collettiva;
- etica, perché ha a che fare con i nostri Comportamenti;
- sociale, perché ha a che fare con l’idea di Comunità;
- politica, perché ha a che fare con l’idea di Cittadinanza.
Il mondo attuale soffre, come lo definiva Keynes”, dell’incubo del contabile. Distruggiamo le campagne perché le bellezze naturali non hanno alcun valore economico. Saremmo capaci di fermare il sole e le stelle perché non ci danno alcun dividendo.
Scriveva Andrea Zanzotto “Un bel paesaggio una volta distrutto non torna più, e se durante la guerra c’erano i campi di sterminio, ora siamo arrivati allo sterminio dei campi, fatti apparentemente distanti ma che appartengono alla stessa mentalità”.
Scriveva Pasolini nel 1974: “La civiltà dei consumi sta distruggendo l’Italia anche nel paesaggio. Per questo occorre difendere le grandi opere d’arte e la stradina da niente, così come accanto alla poesia d’autore va difesa la poesia popolare. “La difesa del paesaggio deve avvenire attraverso la scandalosa forza rivoluzionaria del passato”. Un paesaggio che non è solo estetico (da guardare) ma anche etico (da vivere). Un paesaggio che è legato alla salute, alla qualità del vivere, alla felicità e al benessere dei singoli e della comunità.
Davanti al degrado della cultura del bene comune che cosa possono fare i cittadini?
Anzitutto chiedere il rispetto della Costituzione, che nel suo progetto di un’Italia giusta e libera ha dato al paesaggio uno straordinario rilievo.
E poi, soprattutto, l’azione popolare. Di fronte alla corruzione delle coscienze e al degrado del paesaggio è dovere del cittadino prendere la parola e farlo in quanto cittadino.
Il grande movimento che si sta diffondendo in tutta Italia per la protezione del paesaggio e dell’ambiente o contro le Grandi opere inutili e devastanti, che alle grandi associazioni nazionali come il WWF o il FAI ha affiancato qualcosa come 15.000 associazioni o movimenti locali dalle Alpi alla Sicilia, è sotto gli occhi di tutti. La crisi della politica è evidente e quindi ai cittadini, in nome della Costituzione e della legalità, deve tornare la parola e l’iniziativa.
Permettetemi un’esortazione: parliamo fra di noi di paesaggio non come di una morta zavorra, ma come fonte di vita e di pensiero. Viviamolo nella sua infinita bellezza. Perché la bel­lezza del nostro paesaggio e del nostro patrimonio non è figlia del denaro né può essere scambiata col denaro. È madre di pensiero, capace di riflettere e far riflettere sul nostro tempo. Non è fuga dal presente, ma impe­gno a intenderne conquiste e tragedie: è una bellezza terribile, perché regala libertà. Come ha scritto Camus, «la bellezza non fa le rivoluzioni, ma viene il giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei»; Roberto Gramiccia scrive giusta­mente che “la cecità davanti alla bellezza genera cini­smo, deriva morale, passività, resa, indisponibilità a scandalizzarsi anche dinnanzi alle più insopportabili nefandezze morali ed estetiche”.
A questa Italia si addice un passo famoso di Italo Calvino
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà. Se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e che cosa in mezzo all’inferno non è inferno e farlo durare e dargli spazio”.
Quel che certamente oggi in Italia non è inferno é l’idea alta del Bene comune. Riconosciamoci in essa perché non ci inghiottano né l’inferno né i troppi italiani che, vittime inconsapevoli, lo accettano passivamente.



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