"L'uomo ha perso la capacità di prevedere e prevenire; finirà per distruggere la Terra".



Da alcuni spunti offerti da un articolo di Giorgio Nebbia


Queste parole furono pronunciate da Albert Schweitzer, il grande pensatore premio Nobel per la pace, nel 1953, quando le esplosioni delle bombe atomiche nell'atmosfera stavano diffondendo atomi radioattivi e cancerogeni su tutto il pianeta.
Poi venne la distensione fra le due superpotenze e poi la scomparsa dell'URSS. Sorsero nuovi giganti industriali, e una ondata di progresso tecnico-scientifico in tutto il mondo; cominciò un aumento dei consumi e dell'uso dell'energia e delle risorse naturali, accompagnato da un brusco aumento della diffusione nel pianeta di rifiuti solidi e liquidi che contaminavano le terre e gli oceani, e di gas come anidride carbonica, metano, composti clorurati, eccetera, che modificarono rapidamente la composizione chimica dell'atmosfera.
Già nei primi anni del Novecento alcuni chimici avevano fatto quattro conti e avevano spiegato che un aumento della concentrazione di tali "gas serra" nell'atmosfera avrebbe portato un aumento della temperatura media della superficie dei continenti e dei mari, con un turbamento di quel delicatissimo e fragile equilibrio termico da cui dipendono le piogge e la formazione dei ghiacciai permanenti e dei deserti, la circolazione delle correnti che spostano il calore da una parte all'altra dei grandi oceani, scaldando alcune zone fredde e rinfrescando altre.
Ben presto si è visto che l'aumento della temperatura media del pianeta provoca la fusione di una parte dei ghiacciai polari con successive reazioni a catena: nella trasformazione dell'acqua solida in acqua liquida masse di acque fredde e prive di sali vengono miscelate con le acque saline del mare; inoltre dai ghiacciai che fondono si libera il metano, intrappolato da tempi antichissimi, che si disperde nell'atmosfera e contribuisce anche lui ai cambiamenti climatici. Tutte reazioni di cui si vedono le conseguenze certe sotto forma di più frequenti violente tempeste o lunghe siccità, di avanzata dei deserti in alcune zone, di più intensi flussi dei fiumi in altre.
Gli effetti negativi dei cambiamenti climatici potrebbero essere contenuti attraverso una limitazione delle attività umane inquinanti, ma qualsiasi tentativo in questa direzione è finora fallito perché danneggia potenti interessi economici, gli affari, le finanze, le imprese, i produttori di petrolio e di energia o gli sfruttatori delle terre agricole e delle foreste, della natura in generale.
Già novanta anni fa i biologi matematici avevano spiegato che l'intossicazione dell'ambiente dovuta ai rifiuti delle attività dei viventi porta a un’inevitabile sofferenza e declino delle popolazioni che tale ambiente occupano, tanto più rapido quanto maggiore è la produzione di rifiuti. E quarant'anni fa Commoner ("Il cerchio da chiudere") aveva scritto che i guasti ambientali sono proporzionali al "consumo" procapite di merci e risorse naturali e alla conseguente produzione di scorie. Tutte cose ridicolizzate o dimenticate o ignorate dal potere economico e dalle autorità politiche perché disturbano il "normale" andamento delle cose.
Che fare per, almeno, attenuare costi e dolori ?
- Ci sono varie alternative: quella attuale è andare avanti come al solito ignorando il fatto (certo) che ci saranno sempre più frequenti disastri ambientali rimediando i danni con i soldi. In Italia si invoca lo stato di calamità naturale che consiste nel chiedere soldi pubblici per risarcire chi perde la casa, e i beni o i raccolti, o i macchinari delle fabbriche, o per ricostruire strade e ferrovie e scarpate e ponti travolti dalle intemperie o dalle frane e alluvioni. Soldi che vengono poi spesi in genere per ricostruire negli stessi posti che saranno di sicuro devastati da eventi futuri. Lo stesso vale per i disastri mondiali per i quali le comunità locali o internazionali spendono soldi per risarcire i danni che le persone hanno subito, per l'imprevidenza dei loro governi i quali non hanno preso le precauzioni - tanto per cominciare la limitazione delle emissioni di gas serra - che avrebbero salvato vite e beni; poco conta se l'agire "come al solito" provoca migrazioni di masse umane in fuga dall'avanzata dei deserti, dalle zone devastate da cicloni e frane, provoca conflitti senza fine fra popoli che si contendono terre in cui vivere.
- La seconda alternativa è offerta dall’adattamento alle prevedibili catastrofi con interventi che nulla hanno a che fare con la prevenzione. Si sa che le tempeste tropicali e l'aumento del livello degli oceani potranno danneggiare le strutture costiere: ed ecco che si pensa allora a costruire edifici su piloni, barriere nel mare per proteggere le rive; si sa che le più frequenti e intense piogge provocano frane e alluvioni: pensiamo a costringere i fiumi dentro canali e argini artificiali. La fantasia è senza fine nel suggerire come adattarci alla "malvagità" della natura “assassina” del pianeta senza mai ricorrere a divieti che rallenterebbero il pazzo cammino della crescita economica.
- Ci sarebbe un'altra soluzione; dal momento che si può interrogare la natura e prevedere come circoleranno le acque e le masse d'aria in conseguenza di quello che stiamo facendo al pianeta e dal momento che non sembra ci sia nessuna ragionevole possibilità di frenare le modificazioni in atto, cioè di consumare meno energia o di rallentare i consumi, si potrebbe cercare almeno di non occupare gli spazi, pure economicamente appetibili, dove si manifesteranno le forze distruttive della natura. La chiamavano pianificazione territoriale ed era insegnata anche in cattedre universitarie ed era stata raccomandata e spiegata da studiosi, ed era perfino stata ascoltata, se pure non attuata, da alcuni uomini politici illuminati e presto spazzati via. Perché anche il più modesto rimedio della pianificazione presuppone lo "sgradevole" coraggio di dire di no, di vietare la presenza umana nelle zone ecologicamente fragili ed esposte a frane, marosi, tempeste e ad altri eventi catastrofici.
Il divieto di costruire opere permanenti, ad esempio a meno di cento metri di distanza dalla riva del mare o dei fiumi, per permettere alle onde e alle acque di recuperare i propri spazi naturali, una minima azione di prevenzione, priva l'uso delle zone più appetibili e ne danneggia i proprietari; un divieto inaccettabile perfino allo Stato che, teoricamente, sarebbe il proprietario di parte delle coste e rive, come dimostra la frenesia di vendere le spiagge ai "concessionari", dopo che essi hanno già devastato le zone ricevute in affitto.
Insomma la pianificazione e la prevenzione non rendono niente ma anzi costano e disturbano la proprietà (privata ma anche pubblica); poco conta che tali costi permettano "ad altri" di risparmiare costi futuri. Nessuna ragionevole persona, nella società del libero mercato, deve spendere neanche un soldo pensando "ad altri", non al prossimo vicino e tanto meno al prossimo del futuro. Quando ci fanno vedere alla televisione le file di cadaveri, le persone disperate nel fango, al più rivolgiamo un pensiero a "quei poveretti", fra una forchettata e l'altra.
E così, con allegra incoscienza e ignoranza di singoli e di governanti, si corre spensieratamente verso un ancora più sgradevole futuro.

E qui noi cosa facciamo? Ne parleremo in un prossimo pezzo poiché si prospettano novità.
Intanto una chicca, sentita di recente, tanto per alleggerire la tensione e sorridere (amaramente).
Il Parco del Po è un disastro!
Non si può fare più niente a Scrivia: tagliare alberi, circolare con mezzi a motore, fare motocross, costruire con cemento armato centraline (ma qui c’entrano anche quei farabutti del Comune) e poi… Quelli del Parco hanno “lanciato” le volpi a Scrivia e queste stanno divorando tutto ciò che si muove, fagiani, leprotti e nutrie(?). Veramente non è una novità poiché altrove, un tempo, avevano già dati per sicuri lanci di lupi paracadutati in valli dell’Appennino.
Pur di impedire che l’ambiente sia a disposizione di tutti e non dei cacciatori, degli speculatori, dei costruttori di opere inutili, di alcuni impresari agricoli senza scrupoli, si cerca di demolire quei tre gatti che cercano di tutelare l’ambiente e ciò utilizzando le calunnie, la tracotanza e anche, purtroppo, la vacuità di chi ci crede. 

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