"Effetto serra: attenzione alle biomasse!”
Queste
cose ce le aveva già dette Federico Valerio in
occasione dell’assemblea a Castelnuovo (aprile 2012) contro la centrale a
biomasse di Casei da 50 mw.
Lo
sostiene il centro ricerche della UE
È
valutazione comune che il ricorso alle biomasse (coltivazioni, alberi ad
alto fusto, palme, sorgo, resti di potatura, barbabietole da zucchero, etc.)
contribuisca a ridurre l’emissione di CO2. Così, di fronte ad
un caminetto scoppiettante, a una fornitura elettrica tramite incenerimento
legname o al
rabbocco con biocombustibile al nostro autoveicolo, ci sentiamo in pace con il
clima che cambia.
Ma uno studio pubblicato a fine ottobre dal JRC, il centro comune di
ricerche della UE che ha sede ad Ispra, ammonisce sulla possibilità
che le attuali politiche bioenergetiche dell’UE aumentino le emissioni di gas a
effetto serra nel breve
termine.
Nel 2009, la Bioenergia
costituiva più di due terzi della produzione primaria delle energie rinnovabili
UE . Il nostro governo, nel suo piano energetico,
sposta addirittura gli incentivi dal solare alle
bioenergie.
Nel rapporto
scientifico anticipato da Euractive si legge che:
“l’uso di tronchi [alberi] a fini bioenergetici causerebbe un
effettivo aumento dei gas serra: emissioni paragonabili a quelle di equivalenti
combustibili fossili nel breve periodo”. Questo perché la
combustione di un albero per produrre
bioenergia – ad esempio in forma di pellet, legno o
trucioli – rilascia tutto il carbonio che l’albero ha assorbito nella sua vita ma, contemporaneamente, riduce anche il deposito
vegetale in grado di assorbire nuovo carbonio nella vita futura. Di conseguenza,
si crea un “debito di carbonio” con un bilancio di emissioni sfavorevole
rispetto alla produzione distruttiva e una tantum di
bioenergia.
Le conclusioni del gruppo di scienziati sono che “con
una corretta contabilità, la bioenergia da tronchi o da coltivazioni intensive
non contribuirebbe a obiettivi politici di breve termine, come gli obiettivi del
2020, anche se l’uso di potature, puliture e residui (biomasse di
seconda generazione) potrebbe invece dare un contributo
considerevole”. In effetti, la bioenergia sembrerebbe la scelta più semplice ed
economica. In particolare per i trasporti, il biocombustibile o il biogas si inseriscono nel sistema e non c’è bisogno di cambiare
molto: basta mettere biodiesel a base di olio di palma, soia e semi di colza e
bruciarlo all’interno del sistema esistente.
Ad oggi non
ci sono regole
internazionali concordate sulla contabilità della CO2 per la
gestione forestale. La bioenergia è semplicemente considerata come “carbon neutral” dallo stesso
protocollo di Kyoto. Quindi, il cambiamento che sarebbe
imposto da questo studio è molto vincolante e oneroso e viene perciò contrastato
dai grandi produttori di legname e dalle corporation dell’agroindustria. Se
nell’ambito della politica delle energie rinnovabili dell’UE le regole per
premiare la creazione di disavanzi netti di emissioni fossero prese davvero in
considerazione, molti dei prodotti in commercio (pellets, trucioli, agro
combustibili) verrebbero disincentivati.
Nella Commissione europea cresce la convinzione che,
come minimo, dovranno essere emanate indicazioni per permettere l’uso della
biomassa solo a saldo di emissioni positive. Quindi a
fronte dei costi del
ciclo vegetale, del ciclo del trasporto, la distruzione del territorio, la
sottrazione di terreno alla salubrità o all’alimentazione, va conteggiato una
riduzione, pari o superiore, di costi e delle
immissioni negative esistenti.
Questo
fa pensare che i biocarburanti di prima generazione non saranno “il futuro
dell’Europa”, dato che, pur apparendo amici del clima e
ottenendo sovvenzioni, possono essere considerati addirittura peggio dei
combustibili fossili che vanno a sostituire.
La questione è ancora più grave fuori
Europa, dove le grandi compagnie distruggono suolo fertile
per l’alimentazione ai fini di importare energia per la mobilità. Le nuove
regole che saranno adottate dall’UE certamente modificheranno i biocarburanti e
conterranno misure volte a impedire incentivi per lo spostamento continuo delle
colture alimentari per il carburante. Con una nuova crisi
alimentare incombente e quasi un miliardo di persone sul
pianeta che soffrono la fame, dobbiamo smettere del
tutto di bruciare il cibo e di provocare volatilità dei prezzi alimentari.
Favorire invece il solare e il settore biocarburanti di seconda generazione ha
il potenziale di scatenare forti investimenti, ricerca e
sviluppo industriale, nel mantenimento delle foreste e delle culture e,
forse, nel settore delle alghe (bioenergia di terza generazione). Ma, mentre
viene strombazzata la nuova Strategia Energetica
nazionale (SEN), chi si sta occupando di tutto ciò nel nostro
Paese?
Commenti
Posta un commento